Quindi, l’uragano: storia di Egor Letov

Ricevo e ospito volentieri questo approfondito articolo sulla storia di Egor Letov, una delle figure più interessanti e controverse della scena punk (ma non solo) russa e siberiana durante gli anni della Guerra Fredda fino alla caduta dell’URSS, scritto dal buon Luca “Gringo” Gringeri. Dall’anarchismo clandestino in gioventù alle pulsioni nazionalbolsceviche, la vita tumultuosa di Letov è ancora oggi poco nota e forse del tutto incomprensibile per noi “incatenati dall’abitudine al vivere“. Buona lettura, attendendo l’eterna primavera!

Quindi, l’uragano: storia di Egor Letov

Ogni volta che incontro un fan di Eduard Limonov, per capire se è genuino o se è semplicemente un hipster ricco destroide o radical chic (due facce della stessa medaglia), gli pongo sempre una domanda trabocchetto: “Non trovi che il libro di Carrere abbia una grossa lacuna?”. Non ho mai ricevuto la risposta giusta, che sono solo tre parole: Egor Fedorovich Letov.
Che, proprio con Eduard Limonov e Aleksandr Dugin, rese famoso il Partito Nazional-Bolscevico.
Che fu anarchico, nazicomunista, che suonò in clandestinità e che fu internato in manicomio.
Prendete Varg Vikernes, mescolatelo con Joe Strummer, con Rozz Williams e con Tolstoj e comunque non ci arriverete vicini.
Cercherò di scrivere qui la sua storia.

 1982-1989: Sporca gioventù

Tutto comincia a Omsk, la seconda città più grande della Siberia, a inizio anni 80. Un tempo coloniale penale per i dissidenti allo Zar, fra cui Dostoevskij, dalla guerra mondiale in poi era diventata un hub per l’industria militare. Fra il grigiore, il gelo e le fabbriche, un giovane Egor Letov trova conforto allo spleen urbano ascoltando i nastri di musica occidentale che Sergej, suo fratello maggiore e jazzista rinomato nei circoli underground di Leningrado e Mosca, gli passa di nascosto.
Il giovane Egor è esuberante e refrattario alla disciplina sovietica cui l’aveva abituato il padre, segretario distrettuale del Partito Comunista, e colleziona espulsioni.
Gli interessa solo la musica, soprattutto il fragore dei Sonics e la pazzia dei Throbbing Gristle e, fra un licenziamento e l’altro, trova il tempo nel 1982 di fondare insieme all’amico Konstantin Ryabinov, forse la prima band sovietica strettamente “punk”: i Grazhdanskaya Oborona, “Protezione Civile” in russo, che abbreviato in GrOb diventa “tomba”.
Cominciano a suonare in cantina, lontani da occhi indiscreti, e ad esibirsi al riparo delle mura degli appartamenti, con un repertorio di canzoni inedite che rappresentano una vera e propria rivoluzione per il rock russo, con la loro velocità e lo loro ferocia.
Il primo parto, dell’85 ma pubblicato ufficialmente nell’89, è il demo “Poganaya molodyozh‘” (Sporca Gioventù), in cui malgrado le ingenuità dell’esordio si sentono i primi germi del suono che li renderà famosi.
Le canzoni sono allegre, ai confini del pop-punk come l’opener e title-track che si apre con un riff degno degli Screeching Weasel, o addirittura del surf rock come “Zoopark”, ma sotto questo strato spensierato si avverte la tristezza e la voglia di fuggire di Egor, autore di tutti i testi:
Sto cercando persone come me,
Pazze e divertenti,
Pazze e malate,
E quando le avrò trovate
Ce ne andremo via di qui,
Ce ne andremo nella notte
Ce ne andremo dallo zoo

(Zoopark)

Ecco come si sentiva il giovane Egor nella Siberia sovietica: un animale in gabbia, in cerca di altri disperati come lui che rompessero le sbarre e uscissero da quella prigione a cielo aperto.
Ma i suoi desideri troveranno un confine nell’inverno 1985: il KGB.
Allertati da un genitore di un fan dei GrOb preoccupato per l’influsso che questi “decadenti” potessero avere sul figlio, gli agenti fanno una irruzione nello scantinato della band e arrestano Ryabynov e Letov.
Il primo viene giudicato “rieducabile” e mandato nell’esercito, da cui precedentemente era stato esonerato per problemi di cuore, il secondo invece è considerato completamente “antisociale” e internato in manicomio, esattamente come una ventina di anni prima era successo al giovane Eduard Limonov.
Passerà lì solo tre mesi per poi essere liberato dai contatti con le “alte sfere” che avevano padre e fratello, ma la sua testimonianza è attuale ancora oggi, perché descrive perfettamente quello che succede anche nelle nostre democratiche carceri, nei nostri democratici lager:
Nell’ospedale psichiatrico, quando hanno iniziato a pomparmi con dosi super forti di neurolettici per la prima volta ho incontrato la morte o qualcosa di peggio della morte. Questo trattamento è lo stesso ovunque, sia qui che in America. Tutto inizia con una diagnosi di “irrequietezza”. Dopo aver somministrato una dose eccessiva di questi farmaci come l’aloperidolo, una persona deve mobilitare tutte le sue forze per controllare il proprio corpo, altrimenti iniziano gli attacchi isterici, le contorsioni e così via. Se una persona crolla, subentra lo shock; si trasforma in un animale, urlando, urlando, mordendo. (…) Questi sono farmaci soppressivi che rendono una persona un idiota. L’effetto è simile ad una lobotomia. Dopodiché la persona diventa “morbida”, “flessibile” e spezzata per tutta la vita.
Egor esce dal manicomio più cupo e più incazzato, completamente votato all’anarchia, si riunisce con i GrOb e compone le canzoni che faranno parte del loro primo classico: “Optimizm” (1985 ma pubblicato ufficialmente nell’89).
Il cambiamento si percepisce sin dalla copertina: non più giovani punx stilizzati con sfondo colorato, ma un topo che guarda dalla finestra un paesaggio industriale.
L’opener “Ya Bespolezen” (Sono Inutile) è un paesaggio Lirico e musicale fedele a questa linea nichilista: una lunga intro di basso più vicina ai Joy Division che ai Buzzcocks si apre poi in una risata disperate, chitarre dolenti sopra un magma noise, l’andamento marziale della batteria ad accompagnare il ghigno di Letov ogni tanto diventa un urlo velenoso, più estremo di qualsiasi band Black Metal, così come la totale mancanza di speranza del testo:

Nei miei palmi
Bruciano piume
Di canzoni assassinate
Di racconti dimenticati
Nella mia bocca c’è un retrogusto
Dei germogli di ieri
Di sbarchi di sconosciuti

Sono inutile
(Ya Bespolezen)



Il disco è un successo, seppur clandestino, e i GrOb cominciano a suonare di nascosto in tutta la Russia, mentre continuano a comporre un numero imprecisato di registrazioni.
A Novosibirsk, durante un concerto in appartamento, Egor conosce Yanka Daghileva.
Di due anni più giovane, ella è conosciuta nell’underground come una poeta raffinata, ispirata all’età dell’oro russa e ad autrici come Anna Achmatova e Marina Cvetaeva.
Letov ha metà cranio rasato, occhialini alla John Lennon, veste di stracci su cui cuce toppe con la A cerchiata; Yanka è completamente nerovestita, i capelli lunghi e il caschetto biondo come una novella Nico. Esplode l’amore fra i due, oltre che una perfetta sintonia politica e artistica che la porta a entrare nei GrOb.
Intanto, la Perestrojka offre la possibilità alla band di uscire dalla clandestinità e cominciano a esibirsi anche in locali e teatri, con un seguito sempre più folto di giovani punx e skinhead che vedono nei GrOb la, per dirla coi Blitz, voce di una generazione.
Ma né il suono né le tematiche si ammorbidiscono, nessuna commercializzazione avviene, e anzi nel 1989 – anno della caduta del muro di Berlino- danno alle stampe una delle loro canzoni più famose, anche per la straordinaria irriverenza e lungimiranza:
La chiave dei nostri confini è stata spezzata in due
E il nostro padre Lenin è appassito…
È marcito nella muffa e nel miele di bosco.
E la Perestrojka continua a procedere secondo i piani.

(Vse  idyot po planu)

Tutto va secondo i piani”, canta Egor Letov con una voce sempre più profonda e sempre più debitrice della musica folk siberiana, il rinnovamento democratico di Gorbacev non è altro che fango gettato negli occhi tanto di chi vuole un vero rinnovamento quanto alla memoria dei sogni di comunismo della Rivoluzione d’Ottobre.
Gli anni ’90 si aprono, sia per Egor che per la Russia intera, allo stesso modo: morte e distruzione.



1990-1994: Stop coi Rolling Stones

“Nella discarica patriarcale di concetti obsoleti,
immagini usate e parole educate,
suicidandosi per distruggere il mondo.
Suicidarsi per distruggere il mondo.
L’eternità odora di petrolio.”


Così salmodia Letov nella seconda strofa della sua canone più iconica, “Russkoe pole eksperimentov” (Campo di esperimenti russo), pubblicata a cavallo dei due decenni ’80 e ’90, sul promontorio degli sconvolgimenti che stava vivendo l’URSS.
Ora dirò una cosa impopolare: qui siamo davanti alla prima canzone depressive black metal mai fatta, o addirittura funeral doom, malgrado di metal ci sia poco o niente.
Mentre in Norvegia Vikernes è ancora un foruncoloso nerd qualunque, e in Inghilterra Cathedral e Paradise Lost stanno solo cominciando a porre le basi per il doom death, in URSS i GrOb pubblicano questa sfiancante epopea noise di 14 minuti, fatta di riff ripetuti allo sfinimento e una voce oscura che si trasforma in grida lancinanti, il tutto con la solita produzione ultra lo-fi.
Egor e Yanka descrivono qui la Russia come laboratorio per le oligarchie occidentali e post-sovietiche, in cui “trasformazione” e “rinnovamento” fanno rima con “carestia” e “strage” in una serie di metafore e citazioni (ai Vangeli, al filosofo William James, a Pushkin) ben più lungimiranti di filosofi ultrapagati che ritenevano che la Storia fosse finita.
I GrOb ormai sono oltre il punk e l’hardcore, e anche oltre le influenze “dark” di “Optimizm”, poiché qui siamo in pieno territorio noise, industrial e apocalyptic folk.
La vita intanto si fa da infelice a tragica, per Egor, malgrado il vecchio amico Konstantin sia tornato come membro fisso della band.
La sera del 9 maggio, a Novosibirsk, Yanka – separatasi da poco con Egor e combattendo da un annetto la depressione- esce di casa senza più tornare.
Il giorno dopo, alcuni suoi amici ricevono una cartolina da lei firmata: “Ti auguro tutto il meglio possibile. Ti voglio bene”:
Il 17 maggio trovano il suo corpo in un fiume. Le circostanze della morte non saranno mai chiarite.
Egor scioglie i GrOb e si ritira a vita privata in un piccolo appartamento in mezzo al bosco.
Qui continua a comporre con vari pseudonimi: “Kommunizm”, un progetto industrial-noise e neofolk che cerca di mettere in scena una genealogia della musica di protesta internazionale (compresa la cover di… “C’era un ragazzo” di Gianni Morandi, con il nome “Stop the Rolling Stones”) e “Egor i Opizdenevshie”, un progetto in cui cominciano ad emergere le sue influenze psichedeliche – come la famosa ballata “Vechnaya vesna” (Primavera eterna) e shoegaze – in particolare la cavalcata noise-pop “Malen’kiy Prints Vozvrashchalsya Domoy” (Il Piccolo Principe è tornato a casa).

La storia di Letov potrebbe finire qui, con un artista triste e in eremitaggio, ma – nella Russia dei primi 90- si aggirava uno spettro: lo  spettro del nazionalbolscevismo.



1993 – 1999: PATRIA!

Giugno 1994, conferenza dei gruppi di opposizione a El’cin. Sul muro giganteggia una bandiera con i colori della Germania nazista, con in centro una falce e martello invece che la svastica; la folla è una massa di skinhead da operetta, vestiti in pelle nera e con la fascia al braccio, che urlano “La Russia è tutto, il resto è niente”; sul palco, davanti alla bandiera, sono seduti i tre leader del giovane “Partito Nazional Bolscevico”: a sinistra, in occhiali scuri e giacca in pelle, siede Eduard Limonov, mentre a destra come un novello Rasputin sporge il faccione di Aleksandr Dugin.
In centro, con barba lunga e capelli scompigliati, c’è Egor Letov.
Cosa ci fa una leggenda dell’anarchopunk sovietico in quel consesso di rossobruni? Cosa è successo nei due anni precedenti?

La transizione fra economia pianificata ed economia di mercato non è indolore come ci narrano le scuole, e in tutta l’URSS ormai a pezzi si scatenano rivolte: venendo a mancare il collante sovietico, montano vecchi odi etnici dalla Cecenia all’Azerbaijan, e non si contano i pogrom che si scatenano contro le minoranze.
La gente comune da povera diventa miserabile, e per la prima volta dai tempi delle carestie degli anni 30 si vedono persone vagare per le strade in cerca di un pezzo di pane, o di un ratto, da mettere sotto i denti.
Agli inizi di ottobre ’93, comunisti e nazionalisti tentano un assalto al Parlamento per frenare la svolta capitalista. Lo occupano per una notte, poi vengono sterminati dai cannoni dell’esercito, mentre per le strade la polizia fa incetta di manifestanti.
Egor era anarchico, forse lo è ancora o forse no, ma decide di mobilitarsi e tornare a far politica.
Fonda insieme a un gruppo di altri punk il progetto “Russian Breakthrough”, una serie di concerti benefit verso i partiti d’opposizione in cui le band presenti reclamano il ritorno al comunismo.
Insieme a Vladimir Kuzmin, mastermind della band indie pop Čërnyi Lukič, scrive anche alcune canzoni espressamente dedicate a l movimento:

Camminiamo in silenzio sulla primavera assassinata,
Sugli edifici distrutti, sulle teste calve,
Sulla terra verde, sull’erba scura,
Sui corpi caduti, sul più grande degli atti,
Sui bicchieri rotti, sui distintivi del Komsomol’,
Sulle parole insanguinate, sugli anni di carestia.

(Daleko bežit doroga (Vperedi vesel’ja mnogo))

Limonov, che aveva partecipato alle rivolte del 93 e insieme a Dugin aveva appena fondato il Partito Nazional Bolscevico (un sincretico esperimento che mescolava attitudine punk, ultranazionalismo e nostalgia sovietica), giunge in uno di questi concerti, per vedere quei leggendari GrOb, riformatisi per l’occasione, di cui aveva tanto sentito parlare.
Terminato il concerto, Eduard si avvicina a Letov e gli porge il suo nuovo libro, “Grande Ospizio Occidentale”, un j’accuse alla decadenza e al totalitarismo soft dei popoli occidentali a metà strada fra Debord e Jean Thiriart.
Dopo averlo letto, Letov si presenta davanti a Limonov e Dugin e chiede di essere ammesso nel Partito.
Ma ancora una volta, cosa spinge un anarchico che aveva lottato per tutta la sua giovinezza contro il potere sovietico ad abbracciare un partito comunista e conservatore? Possiamo solo fare delle ipotesi.
Prima di tutto all’epoca non esistevano ancora in Russia gruppi anarchici organizzati, e per fare lotta politica bisognava immergersi in quel brodo primordiale fatto di insurrezionalisti, sindacalisti rossi, nazisti e semplici nostalgici dell’URSS; in secondo luogo, le profezie di Egor si erano avverate: il campo sperimentale russo era veramente un massacro verso la povera gente, e mentre l’Occidenta ridacchiava della sua vittoria contro “l’impero del male” un sacco di proletarie e proletari si accorgevano che il liberalismo non era poi questa gran cosa nella misura in cui come pegno per la libertà formale chiedeva la vita.
In questo periodo Egor fa dichiarazioni in linea con l’ambiguità del NBP, come: “Sia i comunisti che i fascisti sostengono valori umani comuni. (…) Valori collettivi. La salvezza collettiva è l’unica via da percorrere” (video intervista, 1993).
Eppure, malgrado le pose fascistoidi (non diverse, del resto, da quelle di un David Bowie di metà anni 70), Egor continua ad avere una visione umanista e universalista del mondo, dichiarando in una intervista a “Den”, la rivista di Dugin, che “L’etnonazionalismo è una vergogna”, e che “La mia patria non è solo la Russia. La mia patria è l’URSS. La Russia è una questione privata e separata, come la Germania, la Francia, la Cina e altri Stati. L’URSS è il primo e grande passo in avanti, in un nuovo tempo, in un nuovo orizzonte. L’URSS non è uno stato, è un’idea, una mano tesa per una stretta di mano, e la gloria e la grandezza della Russia è che per la prima volta nella storia dell’umanità ha intrapreso l’aspra e la giusta missione di rompere millenni di squallore e l’oscurantismo e la solitudine dell’uomo alla grande unità… all’umanità.
Il cuore batte a sinistra nel petto di Letov, ed è per questo che nel 96 apre una crisi dentro il Partito. Lui, insieme ad altri, vorrebbe appoggiare alle elezioni il Partito Comunista della Federazione Russa, guidato oggi come allora da Zuganov, mentre Limonov e Dugin vogliono schierarsi con gli ultranazionalisti.
Egor, in aperta rottura con la dirigenza, dichiara che “Eduard soffre di leaderismo, bisognerebbe strappargli la bandiera rossa di mano perché non ne è degno”, e subito dopo viene cacciato con l’accusa di “tradimento” e di “pigrizia artistoide”.
Alla faccia della pigrizia, i GrOb cominciano subito un tour militante per sostenere il Partito Comunista.
E’ proprio in questo periodo che, dopo anni di silenzio, esce un nuovo disco firmato Grazhdanskaja Oborona, Solncevorot (Solstizio), l’album più militante della sua vita a partire dalla iconica copertina, dove un giovane si scontra con la polizia reggendo una bandiera rossa in mano.
Ma “Solncevorot” è, prima di tutto, un capolavoro a livello musicale, con il definitivo approdo a una forma-canzone pienamente noise pop (grazie anche alle chitarre shoegaze del sodale “Makhno”), una produzione inaspettatamente decente e una atmosfera carica di solennità che pervade tutte le canzoni che lo compongono.
La hit del disco è “Rodina” (Patria), in cui l’arpeggio surfeggiante dei primi secondi si trasforma in un riff barocco che farebbe invidia a qualsiasi band power metal, mentre la voce di Egor ormai padroneggia perfettamente il saliscendi fra timbro baritonale e urlo feroce. Il testo, invece, è insospettabilmente debole rispetto agli standard, forse pensato più come canzone da corteo che come poesia:

Vedo la mia patria alzarsi in piedi
PATRIA!
Vedo la mia patria rinascere dalla polvere
PATRIA!
Posso sentire la mia patria cantare
PATRIA!
La mia patria si alza in piedi nuovo


Per i tre anni successivi Egor si di divide fra una rinnovata creatività, producendo un album dopo l’altro, e militanza comunista, vendo sbattuto fuori dai Paesi Baltici a più riprese come “persona non grata”. Poi, nel 99, dopo l’ennesima sconfitta del partito e l’elezione di un insipido e allora sconosciuto ex agente del KGB, Vladimir Vladimirovic Putin, Letov decide di abbandonare tutto e tornare nella sua Omsk.



2000 – 2008: FUORI DA OGNI DIMENSIONE

Nel suo rifugio, Egor tace per un lustro – se si eccettua un breve disco di canzoni tradizionali sovietiche rivisitate e qualche concerto.
Passa il tempo con la compagna, cammina per i boschi, sperimenta nuove droghe allucinogene e fa, in un certo senso un percorso all’inverso, tornando all’anarchismo e al rifiuto di tutti i nazionalismi e di tutti i poteri,tanto che dopo un suo concerto a Ekaterinenburg nel 2004 culminato in una rissa fra skinheads, dichiarerà:
Dobbiamo ammettere che ciò che si osserva oggi ovunque non è nemmeno la nascita, ma l’offensiva totale e aggressiva del FASCISMO, quell’insetto simile a un topo che abbiamo già sperimentato sulla nostra pelle. Vaffanculo. Ogni persona a cui non piace marciare al passo dell’oca, chiunque sia se stesso, chiunque sia VIVO – combatta i fascisti come meglio può, prima che sia troppo tardi. Con i totalitarismi di sinistra, di destra, a stelle e strisce non abbiamo che da ribadire una cosa: vaffanculo. Non associate la vostra merda alla nostra musica
Il suo approccio all’anarchia stessa però cambia. Non è più l’insurrezionalista che getta rabbia contro il Governo in clandestinità, ma è un “ritorno alla foresta”, un avvicinamento a temi ecologisti da una parte e una riappropriazione di una vita essenziale, a contatto con la natura.
In questo stesso periodo, oltre agli sporadici concerti, torna in piena attività discografica con la pubblicazione di due dischi gemelli: “Dlouhý šťastný život” (Una vita lunga e felice) e “Reanimace” (Rianimazione), una sorta di concept album in due volumi sulla guerra interiore e contro la guerra fra popoli.
Proprio la traccia che dà il titolo al secondo album è un cupissimo poema contro ogni forma di conflitto fra esercito.
Il testo, forse uno dei punti più alti di Letov, viene scritto mentre era stato brevemente ricoverato in ospedale, e vicino a lui c’era un soldato morente trasferito dalla Cecenia, che delirava mentre si approssimava alla fine.
Egor lo unisce alle sue riflessioni, ed esce qualcosa che dovrebbe essere ricordato ai molti che, spesso, collegano i GrOb a pulsioni guerrafondaie:
Ma il singolo soldato ha smesso di morire
Dopotutto, ha solo una parola, solo una parola: “ma cosa’”
Cominciò a mangiare, riempire, vomitare, smontare a pezzi.
Il cranio viene fatto a pezzi e il cervello scorre attraverso muri e pareti
Pareti, porte, finestre. Gli altri erano vicini
Comprendeva in fretta lo stato delle cose
Contemplando la possibilità di andare ovunque
Per abitudine, continuando a ripetere ritualmente:

Rianimazione.

Nel caldo temporale del parco estivo
Regali tardivi, le nostre voci.
Dov’è una tale mosca, banda di ottoni
E questo è comunemente chiamato, figlio,

Rianimazione


La musica di questi album, invece, dallo shoegaze ha fatto un balzo indietro arrivando agli anni 60. Ci sono ancora i wall of sound di chitarra in feedback, ancora i ringhi, c’è addirittura qualche accelerazione punk, ma in generale incombono armonie beatlesiane e arrangiamenti psych rock, con largo uso di tastiere che a volte sono le colonne portanti del pezzo, come il giro di xilofono in “Nas Mnogo” (Siamo in tanti) o i fiati in “Bez Menya” (Senza di me).
Questo momento di ispirazione culmina con il suo canto del cigno “Zachem snyatsya sny?” (Perché sogniamo?) del 2006. L’album si apre con un’ode agli psiconauti e per tutta la durata mantiene un perfetto armonia fra tastiere sixties, melodie psichedeliche, palesi influenze degli ultimi Swans e la voce di Letov ormai perfettamente simile a un pope ortodosso.
Un disco quasi sereno, che non si nega ad autocitazioni come in “Snaruzhi vsekh izmereniy” (Fuori da ogni dimensione), dove il dolce arpeggio principale viene interrotto da una aspra risata che sembra ricordare “Ya Bespolezen”, ma che stavolta non precede un inno disperato all’inutilità, ma la volontà di tirarsi fuori dalla materialità del mondo:
io non credo ai giorni e alle notti
non ascolto i detti degli altri        
ho la lingua gettata dietro la schiena
volo fuori da ogni dimensione

Volerà fuori dal nostro mondo due anni dopo, per infarto o per avvelenamento d’alcool.
A 16 anni dalla sua morte, in Russia è una leggenda: giovani emo si esibiscono in versioni acustiche delle sue canzoni su YouTube, i Nazbol vanno a portare fiori sulla sua tomba ad ogni anniversario della sua morte, e gli anarchici e le anarchiche di tutto il mondo, compresi i nostrani Kalashnikov Collective, perpetrano la memoria dei suoi pezzi giovanili, del periodo in cui preferiva farsi internare piuttosto che abbassare il capo davanti al Governo.
A differenza di Limonov, il mainstream occidentale non l’ha mai scoperto, non ne ha mai fatto un santino con cui descrivere colpe e meriti della Russia.
Meglio così, probabilmente a Letov non sarebbe piaciuto diventare un’icona, e la sua vita tumultuosa non penso possa essere comprensibile da noi incatenati dall’abitudine al vivere.

Noi la barca.
Lui, quindi, l’uragano.