Le foglie di questo autunno iniziano a scivolare giù dai rami mentre piovono fogli di via, mentre apriamo nuove vie di fuga tra gli alberi caduti al suolo, vittime di una guerra che non hanno scelto di combattere. Stesi inermi nella terra calpestata dai macellatori del verde, tristi esecutori del suicida volere di un potere sudicio che odia la vita.
Come quando da bambini costruivamo capanne sgangherate nel bosco con tronchi umidi ricoperti di muschio, sognando rifugi in cui fuggire e progettando nascondigli dall’ingombrante mondo degli adulti, ora costruiamo piattaforme tra gli alberi con le mani che profumano di corteccia e terra, con gli occhi che trovano nuovi alleati tra i rami e le fronde. Sogni arboricoli, notti di tempesta, la natura che si difende e i semi di una nuova comune che germogliano nel sottobosco. Mentre là fuori, i nostri nemici con i loro scudi e i loro manganelli, aspettano il segnale per spazzare via tutto questo, nei miei capelli sporchi nascondo foglie e ramoscelli, denunce e volantini, un groviglio in cui poter trovare rifugio e nuove tane.
Arrestano una compagna, distruggono barricate, sequestrano materiali, denunciano, ci odiano. Entrano nel bosco e lo profanano, con i loro piedi inadatti ai terreni sconnessi ricoperti di foglie perchè troppo abituati a marciare nei solchi dell’obbiedienza agli ordini, sui sentieri noiosi dello sguardo poliziesco. E allora via Curtatone si che sarà il vostro Vietnam. Lo abbiamo visto con i nostri occhi, lo abbiamo sentito nei nostri cuori ardenti: una pioggia di sassi, basta poco per farvi fuggire.
Ma d’un tratto vedo e riconosco tutto quanto: gli sguardi complici delle mie sorelle, la terra sui volti sudati dei miei compagni, i sorrisi scambiati con amici sconosciuti e abbracci intensi che parlano la stessa lingua, anche se con parole diverse, anche se con intonazioni differenti.
E poi l’amore per il vivente. Per il picchio rosso che nidifica. Spinosi i nostri aculei come il riccio sfrattato dalla sua casa. Intrecci di rami che formano barricate. Inselvatichirsi, tornare alla selva, risvegliarsi coperti di edera, così da assomigliare sempre più a piante rampicanti, su fino a quell’avamposto sul cedro da cui sembra possibile assaltare il cielo. Per riprenderselo prima che possa cadere sulla foresta e su tutti noi.
Scoiattoli e altre creature che cercano di resistere all’ennesimo boschicidio. La cultura del cemento soffoca i nostri respiri e inquina la nostra fantasia. Soffoca e inquina, giorno dopo giorno. Soffoca e inquina i desideri e i territori stretti nella morsa famelica di chi distrugge illudendosi di costruire, di coloro che creano il deserto spacciandolo per nuove oasi pacificate.
Ma quel giorno di ottobre non pioveva più, era il bosco che piangeva. Le motoseghe sono affondate nella corteccia degli alberi così come nelle mie stanche membra, il dolore è stato lancinante, la linfa sgorgava come sangue di un rosso acceso, il tonfo al suolo dei giganti di legno e foglie assomigliava al tonfo nel pieno del mio petto. Ma da ciò che muore germogliano nuovi semi della rivolta, nuove radici della complicità, nuovi mondi in cui delle motoseghe, delle ruspe, degli scudi e della polizia sarà soltanto un triste ricordo di un infame passato.
Abbattuti come gli alberi, ma mai sconfitti come ciò che brulica nel sottosuolo del bosco. Abbattuti come gli alberi, ma con le radici ben salde al suolo.
Scrivo con ancora la terra sotto le unghie, per ricordarmi che dove prima crescevano alberi e arbusti, frassini e robinie, ora cresceranno nuove tormente che non vi daranno tregua nei vostri incubi quotidiani.