Il disco che andrò a recensire oggi non ha niente a che fare con il punk e tutte le sue forme. E’ un disco d’esordio difficile da rinchiudere e categorizzare entro etichette precise. Ma per farci un’idea, o una parvenza di essa, ci proveremo, giusto per comprendere le sonorità così complesse presentate dai Mope. Diamo innanzitutto delle brevi note biografiche sul gruppo protagonista di questa recensione. I Mope sono un’entità misteriosa (preferisco definirli così piuttosto che semplicemente gruppo) proveniente da Genova, formatasi nel 2011 e composta da Fabio alla batteria, Stefano al basso, Jessica alla chitarra e Sara al sassofono. Si avete letto bene, nessun cantante, bensì un sassofono che, come vedremo più avanti, riesce a non far rimpiangere nemmeno un istante l’assenza di parti cantate, sposandosi alla perfezione con la proposta musicale completamente strumentale dei nostri quattro genovesi.
L’album in questione, “Mope”, è composto da sole tre tracce per un totale però di 30 minuti di musica. E questo già dovrebbe farci intuire la musica proposta dai Mope. Il primo brano dell’album è “Old Grey Street” (un titolo molto jazz, chissà perchè…) che si apre con un suono di batteria molto tribale e cadenzato (quasi a ricordare certe cose fatte dai Neurosis) orientato a disegnare già dai primi secondi un atmosfera opprimente e distorta; atmosfera squarciata all’improvviso dall’irruzione del sax magistralmente suonato da Sara e che fa piombare l’ascoltatore in una sensazione di estrema malinconia e a tratti di angoscia. Il brano prosegue su questo copione e le due anime della band, quella più pesante e distorta di chiara matrice doom/post-metal e quella più sperimentale, avantgarde e jazz, si intrecciano costantemente in un vortice di sensazioni e atmosfere allo stesso tempo malinconiche (ed il sax suonato da Sara nel creare questa atmosfera triste tipicamente jazz è maestro in tutto il disco) e soffocanti, nonché estremamente disturbanti.
Il secondo pezzo, “Doomed to Feel the Ground”, della durata di ben 12 minuti, si apre invece con una melodia sinistra suonata dal pianoforte che trasmette una sensazione di paura e smarrimento. A farla da padrone ancora una volta, e sarà la costante per tutti e tre i pezzi che compongono questo “Mope”, è il sax che irrompe all’improvviso, questa volta creando melodie e atmosfere inizialmente più sognanti invece che angoscianti. Questa effimera atmosfera sognante viene però immediatamente soffocata dalla pesantezza delle distorsioni del basso e della chitarra (a tratti quasi drone) che ricordano gruppi come OM o Earth (citati dagli stessi Mope come loro principali influenze). Il sax, come già detto nell’introduzione di questa recensione, riesce a non far rimpiangere l’assenza di parti cantate perchè, con la sua capacità di trasmettere emozioni totalmente opposte, sia tra i differenti pezzi, sia all’interno dello stesso brano, appare quasi essere lui stesso la voce che accompagna le atmosfere opprimenti create dal tappeto sonoro distorto di basso, chitarra e batteria. Nota di merito di “Doomed to Feel the Ground” è sicuramente la capacità, dovuta all’ottima qualità della musica suonata dai Mope, di non annoiare mai e anzi di tenere incollato l’ascoltatore per tutta la durata del brano, nonostante 12 minuti siano difficile da sostenere, sia per chi suona, sia per chi ascolta.
Anche l’ultima traccia intitolata “La Caduta” viene introdotta da una batteria ipnotica e tribale (che a me continua a riportar alla mente i Neurosis…) che si lega alla perfezione con l’atmosfera ambient iniziale sporcata con basse e lontane distorsioni drone. Il sax irrompe nuovamente sul muro di suono distorto, fumante, cadenzato creato dalla chitarra e dal basso, rispettivamente, di Jessica e Stefano, questa volta riprendendo le melodie malinconiche e angoscianti già conosciute nell’iniziale “Old Grey Street”. Quest’ultimo pezzo si conclude con un outro di pianoforte che sembra lasciare un po’ di respiro e speranza dopo che l’opprimente atmosfera, a tratti malinconica, altre volte disturbante, creata dai Mope. ci ha fatto piombare per 30 minuti in un abisso sonoro nel quale regnava suprema l’oscurità e dove abbiamo dovuto guardare in faccia i mostri che assediano i meandri più inesplorati della nostra mente. Creature spaventose, opprimenti, angoscianti come la gigantesca piovra (un artwork che rappresenta alla perfezione le atmosfere e le sensazioni create dalla musica dei Mope) che domina la copertina di questo debutto.
Dopo aver brevemente analizzato i tre brani che compongono questo “Mope”, possiamo provare a definire la proposta sonora dei nostri genovesi. Un sound, quello dei Mope, nel quale convivono svariate anime differenti (amalgamate alla perfezione secondo me) che spaziano dal doom più sulfureo e ipnotico, al free jazz e all’ambient, passando per sonorità a volte post-metal, altre volte più drone, altre volte ancora riconducibili alle proposte più distorte di certo stoner. I gruppi che vengono in mente all’ascolto di questo album, oltre ai già citati Neurosis (sopratutto per le parti di batteria e per le atmosfere create da quest’ultima), Om e Earth, possono essere i Minsk, gli Yakuza e alcune cose fatti dagli Sleep.
I Mope con questo loro omonimo album ci ha fatto piombare per 30 minuti in un abisso sonoro nel quale regnava suprema l’oscurità asfissiante e la sensazione di angoscia claustrofobica e dove abbiamo dovuto guardare in faccia i mostri che assediano i meandri più inesplorati della nostra mente. Creature spaventose, opprimenti, angoscianti incarnate dalla gigantesca piovra, o quella che assomiglia ad una piovra, (un artwork che rappresenta alla perfezione le atmosfere e le sensazioni create dalla musica dei Mope) che domina la copertina di questo debutto, i cui tentacoli sembrano volerci intrappolare per sempre in questo vortice distorto, solo a tratti smorzato dalla malinconia del sax.