Una figura dalle fattezze femminili, forse una baccante, coperta da una pelliccia scura che rende impossibile distinguere i tratti del suo volto avanza verso di noi cavalcando un cervo, invitandoci a seguirla all’interno di una foresta dall’aria mortifera e disseminata di alberi secchi e spogli, mentre i nostri piedi calpestano ossa umane ad animali che coprono il suolo e scricchiolano sotto i nostri passi. Mentre l’oscurità della notte viene trafitta e illuminata da una tenue luce lunare, la misteriosa figura femminile ci conduce in prossimità di un rituale pagano che sembra sul punto di cominciare appena partono le note del primo e unico disco omonimo degli irlandesi Bacchus.
Il breve racconto introduttivo ha preso forma ammirando la bellezza evocativa e l’atmosfera pagana trasmessa dall’artwork di copertina di questo “Bacchus“, prima, e finora ultima fatica in studio, datata 2011 firmata dagli irlandesi Bacchus. Una copertina che riesce in modo magistrale ad accompagnare l’ascoltatore in questo viaggio iniziatico attraverso le otto tracce e ad evocare in lui sensazioni di smarrimento e angoscia, tra toni apocalittici e passaggi atmosferici che permeano l’intero disco.
Intorno al primo decennio degli anni duemila sembrava che l’Irlanda fosse diventato il territorio più fertile per il proliferare di un preciso modo di intendere e suonare crust punk. Un crust punk particolare che incorporava nel proprio sound tanto dosi maggiori di rallentamenti simil doom-sludge, capaci di dipingere paesaggi dai toni apocalittici a la Neurosis e attraversati da un’epicitá oscura di amebixiana memoria, quanto attingere dalla storia e dal folklore celtico (e non), al fine di creare un’atmosfera generale permeata da pulsioni pagane e da echi tribali in grado di evocare tempi ancestrali e un mondo naturale permeato da forze magiche e creature selvagge. Oltre ai Bacchus, protagonisti di questa recensione, possono venire in mente i Dagda, altro gruppo autore di un disco tanto bello quanto dimenticato del calibro di “An Endless Betrayal” di cui potrei parlare in un prossimo appuntamento con le “ombre del passato”, chi lo sa.
Il sound che gli irlandesi Bacchus propongono su questo loro omonimo disco è un crust/hardcore in bilico tra la scuola scozzese di Sedition e Scatha e la lezione statunitense degli His Hero Is Gone o dei From Ashes Rise, imbastardito ed arricchito con divagazioni post-metal tribali e apocalittiche di scuola Neurosis, in un ibrido polimorfo che si pone a metà strada tra i Fall of Efrara e le pulsioni sludge più atmosferiche degli Agrimonia. Un disco dunque che non presenta solamente sfuriate di crust/hardcore barbarico e tempestoso ma in grado anche di rallentare il tiro per lasciare spazio a momenti dalle tinte atmosferiche che dipingono, attraverso le melodie di chitarra e i ritmi tribali di batteria , dei veri e propri paesaggi selvatici e silvestri che sembrano provenire direttamente da un passato ancestrale e pagano dell’umanità. Inoltre, se tutto questo non vi dovesse bastare, i momenti più atmosferici del disco possono riportare alla mente l’eco lontano degli Amebix più oscuri e primitivi.
Quindi, proprio in accordo all’etimologia stessa del termine greco bàkkhos, appellativo che accompagnava il dio Dioniso nella mitologia, l’ascolto di questo “Bacchus” si dirama verso sentieri polimorfi e cangianti, dando l’idea di trovarsi nel bel mezzo di qualcosa a metà tra un rituale sciamanico pagano e una possessione estatica, in costante bilico tra momenti devastanti e furiosi e rallentamenti tesi a dipingere paesaggi silvestri avvolti in un’atmosfera oscura e opprimente. E mentre noi danziamo sotto la luna piena insieme a creature selvagge e siamo divorati dal fuoco che brucia dentro di noi e dai fumi dell’alcool, che inizi l’ennesimo baccanale, che rieccheggino nella foresta le nostre urla di gioia dionisiaca…