Soundtrack of the Pandemic Nightmare

Non è facile parlare di pandemia, quarantene, covid-19 e delle disastrose conseguenze che tutto questo ha avuto sulle nostre esistenze, su piani completamente diversi che toccano tanto il personale quanto il politico, tanto la sfera psicologica quanto quella materiale. Non è facile e tantomeno ho le energie per addentrarmi in tali discorsi. Per questo motivo nelle righe che seguono mi limiterò semplicemente a parlarvi di alcuni dischi usciti durante questo tragico 2020 e che per chissà quale ragione non avevano ancora trovato spazio sulle pagine di Disastro Sonoro. Tre ottimi dischi che hanno fatto parte costante della mia colonna sonora durante questi due lockdown e che hanno tenuto compagnia al mio isolamento forzato, alla mia rabbia, all’entropia che mi ha assalito divorandomi lentamente, alla sensazione di affogare per sempre tra paranoie e debolezze e a tutte le mie inquietudini che abbracciavano e abbracciano tuttora la sfera del politico e del personale. Perchè non so dire se l’hardcore è ancora una fottuta minaccia per questo esistente fatto di sfruttamento, oppressione, repressione, alienazione, depressione e morte, ma vorrei tanto lo fosse così da poter finalmente far divampare le fiamme della nostra gioia in nome di una vita radicalmente diversa. Ai/alle punx, ai/alle compagnx, ai/alle amicx, a chi non è niente di tutto ciò, a chi non vuole essere più nulla e a chi non ha più le forze per essere qualcosa, questo è Soundtrack of the Pandemic Nightmare!

Life – Ossification of Coral

Continuo a pensare che questo Ossification of Coral, nonostante a mio parere rappresenti uno dei migliori dischi crust punk usciti negli ultimi anni, sia passato invece fin troppo in sordina nel corso del 2020 e sinceramente non saprei spiegarmi il perchè. I giapponesi Life sono in giro dalla fine degli anni 80/inizio dei 90 e hanno sempre dimostrare di essere uno dei gruppi più interessanti, convincenti, intensi e coerenti emersi dall’affascinante scena hardcore punk nipponica. Autori di dischi grandiosi come Violence, Peace and Peace Research pubblicato nel 2013,  lo scorso anno hanno finalmente dato alla luce il nuovo, magnifico Ossification of Coral, quello che a tutti gli effetti si può definire senza remore il manifesto definitivo del crusher-crust punk suonato dai Life. Partendo come sempre da un sound che tradisce l’innegabile influenza della storica scena hardcore/crust giapponese, soprattutto nei momenti maggiormente raw, aggressivi e selvaggi (Crush Them, Endure Every Day o Same as War), i nostri riescono a scrivere tredici tracce radicate in un crust punk costantemente in bilico tra una natura votata alla crudezza e all’istintiva violenza da una parte e la tensione verso incursioni in territori metallici, toni oscuri e atmosfere dal sapore vagamente post-apocalittico dall’altra.

Immaginatevi dunque l’ascolto di Ossification of Coral come una sorta di viaggio tra gli abissi e le diverse sfumature della storia del crust punk nipponico e non solo, passando attraverso tante scuole e influenze differenti che vanno dai Doom ai Death Side (in certe melodie, assoli e riff), dagli Abraham Cross agli Excrement of War, dai Warhead agli Hiatus, dai Bastard alle primissime pulsioni stenchcore britanniche (tracce come la titletrack o Abscence of Life). Come da sempre il punk suonato dai Life è musica di protesta e rivolta, difatti anche nelle liriche di Ossification of Coral sono centrali le tematiche politiche supportate dall’attitudine riottosa e anarchica da sempre marchio di fabbrica dei Life. Basti solo pensare al titolo scelto per questo disco per comprendere il forte messaggio ecologista che permea le liriche del gruppo giapponese e che anima tracce come la titletrack e The End of Mother Nature, così come la sempre presente critica furiosa alla guerra, agli interessi che la muovono e ai suoi orrori, come da classica tradizione d-beat raw punk. Ossification of Coral è dunque un disco assolutamente devastante, un sincero manifesto del crust punk più crudo, riottoso, feroce e intransigente! CRUST AS FUCK LIFE!

Phane – S/t

Se per una volta volessimo giudicare il disco dalla copertina, questo self-titled album dei canadesi Phane si presenterebbe come un selvaggio e devastante assalto metal-punk ottantiano e il gruppo di Vancouver apparirebbe come un’orda barbarica pronta a mettere a ferro e fuoco tutto ciò che trova sulla propria strada, non risparmiando niente e nessuno e totalmente incapace di provare pietà. Bisogna ammettere che questa descrizione non è poi così troppo lontana da quello che andremo ad ascoltare e dalle sensazioni evocate dalle rabbiose quattrodici tracce con cui i Phane ci danno in pasto un’ottimo lavoro che guarda con nostalgia all’hardcore punk britannico degli anni 80.  Non sono moltissime le band attive oggi impegnate a riproporre sonorità hardcore punk radicate nella tradizione di quell’UK82 sound marchio di fabbrica di band storiche come Varukers, English Dogs e soprattutto Broken Bones. Sarà a causa del mio amore mai celato per i Broken Bones e per il fatto che i Phane strizzino spesso l’occhio ai loro lavori migliori, ma continuo a pensare che la band di Vancouver sia la più convincente e godibile nel riprendere certe sonorità capaci di ricordare immediatamente dischi del calibro di Dem Bones o Bonecrusher.

Le incursioni razziatrici in territori metallici sono estremamente presenti nel sound dei Phane, seguendo ancora una volta la strada che intrapresero i Broken Bones fino ad arrivare a  F.O.A.D. o certi English Dogs, ed emergono chiare fin dall’iniziale Golden Calf così come in tracce quali No Mercy o Shootsayer. E’ dunque facile percepire quanto certe sonorità più orientate a territori (thrash)metal e addirittura motorheadiani abbiano influenzato i Phane nel riffing e in certe melodie, mentre la batteria e le rabbiose vocals riescono perfettamente a rappresentare quella viscerale quanto istintiva riottosità tipica di certo d-beat/hardcore punk britannico a la Varukers di capolavori immortali quali How Do You Sleep?. Quattordici tracce per una mezzora abbondante di hardcore punk radicato nell’Uk82 sound e fortemente influenzato dalle prime pulsioni crossover tanto care ai Broken Bones, cazzo volete di più? Nessuna pietà, nessuna salvezza, solo ossa rotte!

Plague Thirteen – S/t

Questo è stato forse il vero compagno di disperate notti insonni e giorni infiniti privi di energie psicofisiche durante il secondo lockdown autunnale. Un disco che ha occupato in maniera costante le mie cuffie, la colonna sonora perfetta per lo stato d’animo e le emozioni che mi avevano sopraffatto durante gli ultimi mesi del 2020. I belga Plague Thirteen, emersi dalle ceneri dei fighissimi Link, mettono tutto loro stessi in questo primo omonimo lavoro: rabbia, tensioni, angoscia, disperazione, disillusione. Tutte queste emozioni vengono accompagnate musicalmente da un d-beat/crust punk di tradizione novantiana, profondamente oscuro e orientato a costruire un’atmosfera opprimente e desolata, ma animato da buone dosi di melodia al punto che qualcuno potrebbe vederci delle sfumature neocrust. I nomi a cui si ispira però in maniera palese il sound dei Plague Thirteen sono da ricercare nella scena crust/hardcore d’oltreoceano e specialmente in band del calibro di From Ashes Rise, His Hero is Gone, Remains the Day e certe pulsioni più dark hardcore dei Tragedy. Inoltrandosi nell’ascolto di Modern Slave, brano con cui si apre la nostra discesa in questo self-titlted album, ci si accorge presto che le sei tracce suonate dai Plague Thirteen assumeranno di lì a poco le sembianze di voragini pronte a inghiottirci in una spirale di inquietudine, incubi e apparente impotenza, senza lasciarci alcuno spiraglio di salvezza.

Il crust punk oscuro suonato dal gruppo belga è attraversato da due anime ben distinte ma che si amalgamano in maniera grandiosa: da una parte rallentamenti dai toni atmosferici riescono perfettamente a dipingere sensazioni di desolazione, smarrimento e angoscia,  mentre dall’altra ci si imbatte in in furiose tempeste d-beat in cui tutta la rabbia e le tensioni possono finalmente trovare libero sfogo e divampare impetuose accompagnate dalle vocals sofferte e tormentate del cantante Michael (basti pensare ad tracce come Mourn e Haunt Them). Inoltre c’è da sottolineare come i Plague Thirteen sappiano ricreare con gusto e convinzione un’atmosfera cupa e minacciosa, evocando, in brani come Eyes Wide Open, quei toni più apocalittici e oscuri tanto cari a certi Neurosis e Amebix. In poche parole, per concludere, i Plague Thirtheen hanno saputo comporre quello che a tutti gli effetti è un maestoso soundtrack of the pandemic nightmare!