Straw Man Army – Age of Exile (2020)

“This is one small attempt to make something of the bewildering history of these ‘united states,’ and the long age of exile that follows in the wake of this colonial project. An attempt to become better students of the land we occupy, and the long resistance of its stewards to cultural and ecological decimation. A vehicle for histories that won’t sit still.”

Partiamo col dire che Age of Exile è un disco particolare, tanto affascinante quanto certamente non di facile assimilazione. Uno di quei dischi che è inutile ascoltare in maniera distratta sperando di poter assimilare ogni sua sfumatura dopo un solo, rapido, ascolto. Questo perchè musicalmente la proposta degli Straw Man Army è estremamente variegata e piena di tonalità e tensioni riconducibili a numerose influenze differenti. Quello che è certo e che appare riconoscibile fin da subito è che il sound del gruppo di Ney York affonda le proprie radici in profondità nella tradizione dell’anarcho punk britannico, facendo propria quell’attitudine alla sperimentazione, all’ibridazione e all’infrangere barriere sonore tipica di gruppi quali Crass, Zounds e Rudimentary Peni. Nelle varie tracce si possono infatti sentire echi che rimandano a certo surf rock (Common Shame ne è un ottimo esempio e può ricordare anche certi Dead Kennedys), cosi come strutture dei brani che strizzano l’occhio ad un’impostazione quasi free jazz come l’affascinante Arrival, intro strumentale che apre il disco e che ha una qualità e un’atmosfera quasi da soundtrack. E’ veramente difficile imbattersi in tracce che si somigliano perchè una delle enormi qualità degli Straw Men Army è certamente l’imprevedibilità e l’originalità con cui amalgamano le varie influenze che fanno parte del loro dna e con cui costruiscono canzoni estremamente eterogenee l’una dall’altra. Forse a fare da vero e unico comune denominatore a tutti e dodici i brani che vanno a comporre lo stupendo Age of Exile è il cantato che assume costantemente la forma di uno spoken word, redendo evidente la volontà degli Straw Man Army di conferire un ruolo di centrale importanza alla parte lirica e alle tematiche trattate nei testi all’interno della loro proposta.

Il titolo stesso  scelto per accompagnare il disco è un netto richiamo alla storia di oppressione, sterminio e sfruttamento subito dai popoli nativi nordamericani, una storia il cui il nome e il volto dell’oppressore è da ricercare nel colonialismo euroeo, una storia che è ancora attuale come dimostrano le rivolte e i movimenti di protesta anticoloniali che hanno incendiato gli States (ma non solo) nel corso dei mesi estivi, con statue di schiavisti, colonialisti o “scopritori del nuovo mondo” distrutte e abbattute in varie città. Una storia che però non è solo passiva, ma fatta anche e soprattutto da azioni di resistenza e di rivolta, oltre che da momenti di protesta e mobilitazione per affermare i diritti indigeni sulle proprie terre ancestrali (vedasi un movimento come il più recente in ordine di tempo No Dapl nelle terre Lakota). Age of Exile è dunque un disco estremamente politico, un lavoro attraversato da una vena profondamente tormentata e rabbiosa come da perfetta attitudine e tradizione dell’anarcho punk più primitivo, ma gli Straw Man Army decidono di manifestare questi sentimenti non attraverso una musica veloce, concitata e furiosa, bensì scegliendo la strada di sonorità più estranianti e che, in certi momenti, azzarderei a definire paranoiche, giocando con le melodie e spesso con la ripetizione di certi riff, oltre che con una sezione ritmica abbastanza ipnotica, per aumentare quella sensazione di disagio che emerge già dalle liriche e che promette di tormentarci a lungo, insidiandosi dentro le nostre teste per ribadire che il punk è un mezzo di protesta e di minaccia.

C’è da riconoscere poi al gruppo di NY la capacità di indovinare alcune melodie di chitarra e alcuni riff capaci di far ricordare alcune tracce come First Contact subito dopo pochi ascolti. Il disco vive di un’alternanza costante tra momenti come la splendida The Silver Bridge (una feroce critica al progresso capitalista) che gioca con atmosfere care a certo death rock e melodie di natura smaccatamente post-punk, e altri come la titletrack, che partendo da una linea di chitarra capace di creare un’atmosfera dominata da un senso di desolazione e totale impotenza (sensazioni evocate magistralmente anche dall’artwork di copertina), lascia spazio alla rabbia più viscerale e sincera strizzando l’occhio a certo hardcore vecchia scuola a la Dead Kennedys e all’attitudine riottosa dei primi Crass. Il disco si chiude poi com’era iniziato, ovvero lasciando libero sfogo alle pulsioni e alle sonorità più vicine al free jazz invece che al punk anarchico di scuola britannica, ribadendo ulteriormente le tensioni sperimentali degli Straw Man Army, la loro personalità indiscutibile e l’indubbia originalità della loro proposta. Age of Exile è dunque un disco originale, imprevedibile, complicato ed estremamente affascinante, un lavoro da cui lasciarsi inghiottire senza remore per poterne, ascolto dopo ascolto, assaporare al meglio ogni sua minima sfumatura. Un disco a mio parere maestoso tanto dal punto di vista della qualità strumentale quanto dal lato del messaggio politico, riuscendo ad intercettare in maniera perfetta quello che dovrebbe essere il punk in ogni sua forma: coscienza, protesta, minaccia, rivolta.