Quando mi imbattei in “Pellicano nel Deserto”, primo e unico disco dei perugini Sterpaglie, nel 2018 rimasi folgorato e mi innamorai praticamente immediatamente del loro sound a metà strada tra il post-metal/sludge, il post-hardcore e il neocrust, così come mi infatui in mezzo secondo dell’estrema bellezza dell’atmosfera che avvolge l’intero lavoro, in costante tensione tra la quiete e la tempesta, tra la desolazione e la salvezza. Di seguito potrete leggere la bellissima ed intensa chiaccherata fatta con gli Sterpaglie questa estate, semplici storie di pellicani, periferei e deserti interiori.
Iniziamo con il presentare questo affascinante progetto che si cela dietro l’altrettanto affascinanti nome “sterpaglie”. Chi siete, cosa vi ha convinto a mettere su il gruppo e perché? Ma soprattutto, come vi è venuto di chiamarvi sterpaglie?
Siamo quattro ragazzi di 23 anni, veniamo da una piccola città (Perugia), siamo amici dall’adolescenza, e da allora non abbiamo mai smesso di suonare insieme; quando i nostri progetti più acerbi sono andati alla deriva, sono nati gli [sterpaglie]. Non è stato facile partire, due di noi hanno addirittura imparato a suonare i propri strumenti per il gruppo, ma anche per questo ci piace pensare di essere stati spinti spinti da un’esigenza profonda: quella di dare forma ad una sensazione che, più o meno consapevolmente, sentivamo tutti. Per quanto riguarda il nome: prima di tutto ne volevamo uno in italiano, ci piaceva l’idea che si legasse un po’ all’hardcore nostrano e alla sua tradizione, e volevamo che fosse cupo e malinconico come quello che scriviamo. Dopo vari tentativi, uno più maldestro dell’altro, è venuto fuori questo nome, che per qualche motivo ci ha convinti – forse perché era di gran lunga il tentativo più maldestro.
Un titolo come “Pellicano del Deserto” non è affatto banale e anzi porta con se una certa dose di mistero e fascino. Quale significato si cela dietro un titolo che regala un’immagine cosi evocativa? Vi va di parlarne ai lettori di Disastro Sonoro?
Il titolo è tratto dalla Bibbia, dal Salmo 102: “Somiglio a un pellicano del deserto/ son pari a un gufo in mezzo alle macerie”. Vi consigliamo di leggerlo per intero, dipinge la desolazione, la sofferenza di qualcuno che ha perso ogni punto di riferimento, come il pellicano: un animale malinconico, che vive sugli specchi d’acqua, ma finisce per trovarsi solo in mezzo ad un deserto. Possiamo dire che la scelta del titolo sia stata spontanea. Viviamo calati in un mondo egoista e superficiale, il che si riflette soprattutto sulle nostre interiorità, creando in noi l’idea di essere poco più di involucri vuoti, soli e distanti. “pellicano del deserto” porta quindi il messaggio e la speranza che in questo deserto emotivo e comunicativo, ci si possa ancora sentire vivi, umani, anche se soli.
Ascoltando il vostro primo disco “Pellicano Nel Deserto” si potrebbero farriferimento a questa o quell’altra etichetta per descriverne il suono. Io preferisco invece lasciare parola a voi per descrivere la vostra proposta. Come nasce il sound degli sterpaglie? Cosa vi ha influenzati nel comporre la musica di questo disco?
Prima suonavamo e ascoltavamo tutt’altro, ma anche grazie agli amici che popolano la piccola scena nella nostra città (ai quali siamo molto grati!), a poco a poco abbiamo scoperto un mondo vastissimo. Un gruppo in particolare ci ha folgorati, i Fall Of Efrafa: ci siamo ispirati a loro e a quell’universo (come Anopheli, Morrow, Alpinist, Junbluth, His Hero is Gone, Tragedy), senza dimenticare altre innumerevoli band che abbiamo incontrato lungo il percorso e che ci hanno catturati. Se proprio vogliamo ricorrere a delle etichette, il nostro sound incorpora elementi di sludge, doom e crust, e meno direttamente sonorità emo/screamo e black metal. Noi non abbiamo fatto altro che amalgamare questi diversi lessici per creare un linguaggio che ci permettesse di dire qualcosa di nostro.
Tre tracce per mezz’ora di durata. Non si può certo dire che la vostra proposta sia di semplice assimilazione e anzi ho trovato l’approccio con questo lavoro molto intenso, come se, appena partono le prime note dell’iniziale “Morgenrot” ci si stesse per tuffare in un abisso impenetrabile da cui poi risalire totalmente diversi. C’è qualcosa di particolare che vi ha influenzato nella creazione di questa atmosfera in costante bilico tra quiete e tempesta?
Quando ci riuniamo in sala prove per scrivere proviamo a costruire sensazioni e non tanto a descrivere sterilmente un’emozione o un’esperienza, così come quando suoniamo live: l’intenzione è sempre quella di connettersi e di coinvolgere chi ascolta per creare un clima intimo. Questo si traduce in strutture composite: piccoli viaggi in un universo introspettivo, dove è facile sentirsi in bilico (come nel caso di “morgenrot”, in conflitto tra amore e risentimento), e dove ogni volta si scopre qualcosa di nuovo – o almeno così è per noi.
Anche l’aspetto lirico ci mette del suo per rendere il tutto più intenso, a tratti malinconico mentre in altri momenti burrascoso, come la calma labile prima del temporale. Volete parlarci dei testi e di cosa avete intenzione di trasmettere o raccontare tramite essi?
I testi sono tutti di Luca (voce e chitarra ritmica), che li ha scritti alla fine di un lungo periodo di blocco, sono molto introspettivi, e nascono da esperienze personali vissute nei due anni precedenti l’uscita del disco. Noi siamo cresciuti insieme, e questo ha creato negli anni un legame profondo, per cui teniamo a che i nostri testi siano sentiti propri da tutti e quattro. Lì, infatti, quei vissuti si deformano intessendosi in un linguaggio diverso, diventando trasversali. Parlano di giovani alle prese con una complicata fase di crescita, e del senso smarrimento che ne deriva; dei conflitti distruttivi che conducono con sé stessi e con le figure che li circondano, mentre cercano disperatamente un equilibrio.
Nella descrizione della vostra pagina bandcamp sottolineate di essere nati in un capannone industriale di periferia. Cosa significa per voi il concetto di periferia? Che influenza ha avuto tutto lo scenario decandente post-industriale che caratterizza la maggior parte dei non-paesaggi tipici delle periferie delle grandi città nel concepire un lavoro come “Pellicano del Deserto”?
E’ buffo, ma la nostra città è quasi tutta periferia, che si divide tra campagna e quartieri. Non lontano da dove abitano alcuni di noi comincia una lunga zona industriale, dove fra edifici squadrati, casupole isolate e orti (spesso incolti) emerge quel capannone di cui andiamo tanto fieri: la nostra sala prove/santuario desolato, culla di tutti i nostri progetti. Siamo quindi familiari con le periferie. Da adolescenti vivevamo confinati in questi spazi, tra sbronze e pomeriggi svaniti nel nulla tentando di dare un senso alle nostre giornate. Ci riteniamo fortunati ad aver trovato rifugio nella musica, anche se può suonare banale. La noia adolescenziale, l’alienazione di queste periferie grigie e sonnolente, hanno plasmato il nostro modo di scrivere, oltre che al forte legame che ci unisce.
Progetti futuri in casa Sterpaglie? Prossimi concerti? State già lavorando a nuovo materiale da incidere?
Da poco “pellicano del deserto” ha compiuto un anno, lo abbiamo portato in giro più che potevamo (da Potenza a Milano). Nessuno di noi abita più la “nostra periferia”, ci siamo sparpagliati in città diverse e portiamo avanti il gruppo a distanza ma con ancora più determinazione: al momento sentiamo l’impulso di tirare fuori qualcosa di nuovo, di scrivere un altro pezzo della nostra storia – forse con una consapevolezza diversa. Quindi il progetto per questa estate è quello di barricarsi dentro al nostro capannone, asfissiati dal caldo, e scrivere senza tregua. Speriamo di tornare sui palchi il prossimo autunno, e di rivedere tutti!
Ultima domanda, doverosa sulla splendida immagine di copertina che riesce perfettamente nell’impresa di evocare tutte le sensazioni che emergono durante l’ascolto delle tre tracce. Nuvole oscure che preannunciano il temporale, una distesa di erba disturbata all’orizzonte dalla presenza di una struttura che richiama appunto paesaggi post-industriali apparentemente abbandonata alla corrosione del tempo, il tutto dominato da un’immobilismo e una decadenza angoscianti. Di chi è opera la foto/immagine di copertina? E dato che sono profondamente sicuro che non avete lasciato nulla al caso, cosa volete trasmettere con una simile immagine?
La foto è stata scattata da un nostro amico, in arte Signor Gustavo Coscienza: un cultore delle tecniche analogiche e un fotografo di una sensibilità fuori dal comune. Avevamo altri soggetti in mente, ci stavamo già organizzando per scattare una foto diversa, ma poi scorrendo un suo vecchio profilo chiuso (l’equivalente moderno di una pila di foto lasciate in un angolo) ci siamo imbattuti in questa immagine e abbiamo capito sarebbe diventata la copertina del nostro disco. E’ stato così per tutte le scelte che hanno dato forma a questo progetto: ci siamo affidati in larga misura all’istinto.
Per quanto riguarda la foto: si tratta di un angolo sperduto delle campagne umbre, il sito di una centrale di estrazione di lignite dismessa, mentre la struttura arroccata in fondo al campo di grano (da noi chiamato amichevolmente “mostro”) è un estrattore abbandonato. Non siamo nemmeno sicuri di interpretarla tutti e quattro allo stesso modo ma di certo siamo d’accordo sul fatto che crei un forte senso di desolazione, e che, guardandola, sia inevitabile sentirsi spinti nel proprio deserto interiore.
Un grazie immenso agli Sterpaglie per aver risposto alle mie domande quest’estate. Dispiace che questa splendida intervista non sia potuta uscire sul primo numero della fanzine di Disastro Sonoro, ma è stato davvero intenso scrivere le domande e leggere le risposte datemi dai ragazzi degli Sterpaglie che sarebbe stato un errore imperdonabile non pubblicarla anche a distanza di mesi.