Sangre de Muerdago – O Vento que Lambe as mi​ñ​as Feridas (2023)

Pablo Ursusson è un moderno bardo, un contemporaneo menestrello, un viandante che vaga per le sfumature più sognanti, eteree, malinconiche ma anche dolci-amare di territori neofolk ancora non del tutto esplorati e ci racconta un nuovo capitolo della sua storia suddividendolo nei nove atti di O Vento que Lambe as mi​ñ​as Feridas, mentre ce ne stiamo seduti su un tappeto di foglie di innumerevoli autunni passati, attorno ad un fuoco che danza giocando con le ombre dei nostri volti. Per chi non lo conoscesse Pablo è stato membro dei mai dimenticati Ekkaia, una delle incarnazioni più interessanti e valide del panorama “neocrust” spagnolo ed europeo degli anni duemila ed ora è, da molti anni, la mente dietro il progetto denominato Sangue di Vischio (trazione dal Galiziano di Sangre de Muerdago).


È da immemore tempo che la musica dei Sangre de Muerdago accompagna la mia vita, come una fedele compagna tra le cui braccia fare ritorno nei momenti di smarrimento, disillusione e bisogno di ritrovare una quiete nel mare di tempesta di pensieri, ansie e difficoltà della vita quotidiana. Fatico a parlare in maniera “oggettiva” e distaccata di un progetto come questo e della sua musica, perché le corde emotive ed intime che i Sangre de Muerdago sanno toccare in me non possono essere nascoste né tantomeno dimenticate. E’ da molti anni che ho il desiderio di scrivere di qualche disco neofolk (genere che ascolto con passione e attenzione) e in particolare dei Sangre de Muerdago, ma son sempre stato frenato dall’idea che un blog punx non fosse il contesto adatto per certe sonorità, probabilmente sbagliandomi. Con la pubblicazione di O Vento que Lambe as mi​ñ​as Feridas e dopo averlo ascoltato decine di volte, i dubbi sono svaniti da soli e la scrittura di questa recensione ha preso forma in maniera del tutto spontanea come fosse un flusso di coscienza incontrollabile.
Aspettavo con ansia e curiosità il nuovo album dei Sangre de Muerdago e non sono rimasto deluso, ma anzi posso dire che ancora una volta Pablo e i suoi compagni in questo viaggio intitolato O Vento que Lambe as mi​ñ​as Feridas hanno saputo creare atmosfere, dipingere immagini ed evocare emozioni e sensazioni che riverberano fortemente in me e che continuano a rappresentare un bivacco sicuro in cui trovare rifugio e riparo, in cui poter tirare il fiato lasciando che il corpo e la mente possano scivolare liberamente in questo flusso sognante, in cui la dolcezza e la malinconia si mescolano all’infinito. Un bivacco dalle cui finestre entra un vento dolce capace di lambire le mie ferite in maniera confortevole, come sussurrato dal titolo.


La musica dei Sangre de Muerdago odora anche questa volta di sottobosco, di terra, di corteccia, di legna bruciata, di foglie, di piante e di pietre e sono odori che pervadono ognuna delle nove composizioni in ogni loro minimo passaggio; segue i sentieri di tracce lasciate dagli animali selvatici e da creature ancestrali sconosciute agli occhi umani, che si perdono nel folto della foresta per non esser disturbate più disturbate da noi creature civilizzate; si lascia trasportare dai venti, in volo tra le nubi come la bambina e i quattro uccelli diversi (un aquila, un airone, una gru e un merlo) raffigurati in copertina, in quella che sembra la rappresentazione di un sogno vero e proprio o di una visione ancestrale e mitica. Un neofolk costruito in maniera personale ed ispirata, sicuramente mosso da tanti sentimenti anche contrastanti, ricco di sfumature, polimorfo e cangiante nel suo mostrarsi a chi lo ascolta, che affonda ancora una volta le sue radici nella tradizione folkloristica Galiziana, marchio di fabbrica del progetto fin dai sui primissimi passi e caratteristica, sopratutto grazie all’uso della lingua Galiziana, che conferisce maggiore fascino e magia alla proposta musicale dei Sangre de Muerdago. Questo forte legame ancestrale con la sua terra di origine, si manifesta in maniera limpida nella scelta di Ursusson di recuperare due canzoni tipiche Galiziane come Eu non quero ir a Misa e Eu Chorei, Chorei, riarrangiate secondo le sonorità e la visione musicale che sono ormai marchio di fabbrica dei Sangre de Muerdago, dimostrandosi come due dei punti di forza di questo nuovo album insieme alla titletrack, all’evocativa Unha paisaxe máis salvaxe e a Oda para as de corazón puro; un album che comunque si mostra coerente nella qualità proposta nella sua totalità, senza accennare a momenti di cedimento o di noia compositiva.

Il disco vive anche di contrasti tra momenti più onirici e atmosfere più bucoliche ed evocative, tra passaggi contraddistinti da una dolcezza poetica e una malinconia riflessiva che toglie il fiato, in questo gioco continuo di alternanze e incontri capaci di evocare differenti immagini nella mente e negli occhi di chi ascolta. Una dimensione di sogno costante enfatizzata dagli strumenti a fiato come il flauto suonato magistralmente da Mara Winter o dalla nyckelharpa suonata Georg “Xurxo” Börner, gli altri due viandanti che accompagnano Pablo in questo viaggio.
Questo album riprende il percorso interrotto con il precedente Xuntas, altro lavoro che ha segnato delle cicatrici sul mio cuore mentre cuciva ferite pregresse, aggiungendo alla formula affascinante dei Sangre de Muerdago una tensione forse più progressiva, pur non perdendo nulla in termini di melodie, emozioni, atmosfere e anzi mostrandoci Pablo e magiche creature al suo seguito in una veste intima e emozionale, forse più di quanto abbiano mai fatto in passato.


I Sangre de Muerdago continuano ad ergersi in piedi sul lato più selvatico di questo mondo, sulla cima delle scogliere da una parte e nelle profondità dei boschi dall’altra, come fossero l’incarnazione più ancestrale di una forza naturale impossibile da incatenare e addomesticare. O Vento que Lambe as mi​ñ​as Feridas ci porta in dono canzoni per curarsi e per vagare senza meta, per danzare e per amare, in solitudine e/o collettivamente con pochi amici complici e fidati. Un disco da portare con se in qualche bivacco allestito in una Groenlandia della mente o in una tana-rifugio nel folto di una foresta che sta scomparendo, per cospirare di paesaggi reali, immaginati e scomparsi; per evocare spettri-luogo, spettri-animali, spettri-piante e parlare con loro; per prepararsi ad affrontare e vivere la catastrofe che sta arrivando, sussurrando di natura e resistenza.