Mujhaed Riot | Storie di Islam, punk e anarchia

La primissima volta che ho letto le parole Islam e punk nella stessa frase è stata da adolescente, quando del tutto casualmente mi sono imbattuto nell’iconica canzone dei CCCP intitolata per l’appunto “Punk Islam”. Ammetto che a quell’età ero nel pieno della mia opposizione serrata alle religioni monoteiste e quindi non mi interessò approfondire più di tanto il testo di quella canzone così come, più in generale, il rapporto tra la religione musulmana e la controcultura punk. A 15 anni mi bastava l’intento provocatorio contenuto in quel brano, la melodia salmodiante e le sonorità vagamente arabeggianti della canzone e non avevo minimamente idea ci potesse essere dell’altro. Crescendo però, superata l’adolescenza e ampliando la mia conoscenza e il mio interesse sulle differenti scene punk e hardcore di paesi lontani e culture differenti dalla nostra, ho sempre guardato con curiosità tutto ciò che poteva rientrare sotto l’etichetta di taqwacore; negli anni ho pensato più volte di scrivere un articolo, sotto forma di breve introduzione o di approfondimento più strutturato, su questa cena musicale e su questo movimento controculturale e politico, ma mi sono limitato ha farne giusto qualche accenno nella recensione di Victory Belongs to Those Who Fight For a Right Cause del misterioso progetto punk hardcore marocchino che risponde al nome di Taqbir.

Ho sempre rimandato la scrittura di un articolo sul taqwacore principalmente per una ragione: non mi sembrava giusto e valido che a parlare di Islam e punk fossi io, uomo bianco occidentale di tradizione culturale cristiana seppur ateo. E anche perché come disse in un’intervista la compagna, cantante e leader dei Taqbir, spesso ci dimentichiamo quanto è difficile per alcune persone essere punk in altri posti del mondo, e quindi non volevo prendermi uno spazio di parola che non mi appartenesse. Anche se oggi ho parzialmente cambiato idea e son convinto che scrivere di taqwacore, islam e punk in quanto persona bianca, non araba e non musulmana non significhi invisibilizzare nessuno e nessuna, proprio per il motivo sopracitato tempo fa provai a proporre ad una carissima compagna (a.k.a. DJ Kandeesha), impegnata a diffondere musica techno araba tramite i suoi dj set, la scrittura di un testo per parlare di religione musulmana, culture arabe e sottoculture musicali (punk in primis). Per mille questioni differenti questo testo non hai mai visto la luce, ma non c’è da disperarsi perché proprio qualche giorno fa il buon Luca Gringeri (per gli amici e i nemici Gringo) ha scritto e pubblicato su Neutopia Blog – rivista del possibile un approfondimento su tutti questi temi dal titolo Mujhaed Riot | Storie di Islam, punk e anarchia. Per gentile concessione sua e della redazione di Neutopia, son orgoglioso e felice di ospitare sulle pagine virtuali di Disastro Sonoro questo interessantissimo articolo. Buona lettura!

Taqbir

“Abbiamo offerto il corpo e il sangue
Per spezzare l’egemonia statunitense
Mai! Mai in America”
– Never to America, canzone Houthi

Settembre 1920. A Baku, capitale dell’Azerbaigian, si riversano folle di persone dalla Russia all’India, dalla Persia all’Ucraina. Arrivano sfiancati dai continui attacchi e sabotaggi dell’esercito britannico, che aveva addirittura bombardato un convoglio marittimo persiano, ma appena solcano le porte della città, cominciano ad alzare al cielo scimitarre, a sventolare stendardi comunisti, a cantare inni di guerra calmucchi.
Questa Babele di popoli e di idee è “Il Congresso di Baku per la liberazione dei popoli d’Oriente”, fortemente voluto dalla Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa e presieduto da Zinov’ev, allora Presidente dell’internazionale Comunista, allo scopo di esportare la rivoluzione socialista in Asia e Medio Oriente.
Ed è proprio lui che, all’apertura del Congresso, proclama una “Jihad contro tutti i Paesi imperialisti”, fra le acclamazioni della immensa folla.


Troppo spesso le persone occidentali, anche quelle più internazionaliste, pensano che non possa esserci alcun collegamento fra le culture più riottose nate in seno al Continente europeo e la tradizione araba. Questa diffusa deriva orientalista, che porta poi alla pretesa coloniale che i popoli mediorientali abbandonino le loro radici per “modernizzarsi”, trova una quantità di smentite tale da zittire per sempre questa vulgata sottilmente razzista e suprematista.

Siamo nel 2002, un anno dopo l’attentato alle Torri Gemelle e in piena “War on Terror” voluta da Bush. Tutto il mondo occidentale è scosso da tensioni islamofobe, su cui gettano benzina presunti intellettuali come lo scrittore Michel Houellebecq e la giornalista Oriana Fallaci, il cui pamphlet razzista La Rabbia e l’Orgoglio diventa best-seller in Italia e America.

La Alternative Tentacles, etichetta discografica di Jello Biafra, ex leader della storica band Dead Kennedys, pubblica uno romanzo peculiare fin dal titolo: The Taqwacores di Muhammad Michael Knight.

Knight è un giovane punk newyorkese, madre irlandese cattolica e padre suprematista bianco, che a 13 anni – stimolato dai testi dei Public Enemy – approfondisce la figura di Malcolm X e della Nation Of Islam. A quindici anni diventa musulmano salafita e va a studiare i precetti della Sunna e del Corano a Islamabad, in Pakistan, considerando addirittura l’ipotesi di andare a combattere coi separatisti ceceni.

Presto, però, il giovane Knight si stufa del fondamentalismo e torna a New York per cercare di mescolare la sua passione per la musica underground con la sua fede, ed è allora che nasce questo suo primo romanzo.
The Taqwacores (da Taqwa, termine islamico per indicare la reverenza verso Dio, e “hardcore”, macro-sottogenere della subcultura punk) narra di un gruppo di punx di Buffalo, tutti di origine araba o di fede musulmana: un  giovane sunnita straight edge – sottogenere dell’hardcore che impone l’astensione da alcool, droghe e sesso occasionale – un tipico street punk con cresta di fede sufi, uno skinhead sciita e soprattutto una giovane riot girl in burqa che guida la preghiera del venerdì.

Tutto il romanzo è la rappresentazione a tasselli della loro vita quotidiana in lotta tanto con l’ortodossia della comunità islamica quanto con il razzismo degli americani bianchi, cercando una sintesi fra le loro radici e le loro passioni in modo da creare qualcosa di nuovo da questo sincretismo, il taqwacore appunto.

Il romanzo di Knight comincia a circolare fra i giovani punk americani arrivando nel 2004 nelle mani di Hakim Bey, il famoso anarchico di religione sufi, che ne rimane entusiasta, e propone all’autore di ristamparlo con la sua casa editrice Autonomedia, che ne garantisce una distribuzione più capillare e ne permette la pubblicazione in altri Paesi. Ed ecco che, nel 2007, arriva in Italia per la Newton Compton con un titolo estremamente azzeccato e, inspiegabilmente, ancora attuale per i giovani del nostro Paese: “Islampunk”.

Facciamo un passo indietro: a differenza di oggi, in cui la “retromania” (cfr Simon Reynolds) goth e new wave è un fenomeno che, malgrado le pretese di inclusività, porta tematiche spesso e volentieri prettamente bianche, il post-punk anni ’80 era incredibilmente suggestionato da ciò che accadeva nei Paesi non europei.

Se My Life in the Bush of Ghost di Brian Eno e David Byrne inventavano la world-music, se le sonorità caraibiche reggae, ska e dub diventavano quasi di moda, le band con tematiche più politicamente radicali si volgevano verso il Medio Oriente, scosso dalle atrocità di Israele nella guerra contro il Libano (uno dei preludi al genocidio odierno a Gaza) e dalla rivolta dei mujhaeddin afghani contro i sovietici.

Alcuni esempi possono essere la band australiana SPK con la canzone Wars of Islam, il disco Music For The Hashishins – In Memoriam Of Hasan Sabbah dello spagnolo Vagina Dentata Organ, Ramleh, duo noise il inglese il cui nome significa “Ramallah”, la capitale della Palestina, e soprattutto Muslimgauze, il progetto solista dark-ambient (prima) e techno-industrial (poi) dell’attivista Bryn Jones tutto dedicato alla Resistenza palestinese.
E in Italia, nel 1984, esce Ortodossia II, il primo EP dei CCCP – Fedeli alla Linea; sul lato B c’è una lunga canzone di quasi 7 minuti intitolata Punk Islam, da un graffito che il frontman Giovanni Lindo Ferretti aveva visto a Berlino. Parzialmente ispirato a “Kebab-Traume” della band tedesca DAF (“Wir sind die Türken von morgen” – “Noi siamo i turchi di domani”), il testo rovescia la sua prospettiva xenofoba per una ambigua salmodia di esaltazione alla componente “punk”, cioè di rottura, dell’islamismo.

“Allah è grande e Gheddafi è il suo profeta
Punk in Beirut
Punk in Smirne
Punk in Ankara”

Per questo in Italia Newton Compton decide di intitolare il testo di Knight Islampunk. Dopo aver letto una recensione di Marco Philopat su XL, in quel lontano 2007, mi precipito a comprare il libro. La guerra in Afghanistan e quella in Iraq proiettavano ancora ombre lunghe sull’immaginario occidentale e io, giovane punk adolescente, subivo il fascino della resistenza irachena contro gli occupanti inglesi, americani e italiani. Purtroppo il libro è fuori catalogo e non ho avuto modo di rileggerlo, ma ricordo che fu una mezza delusione per il mio massimalismo giovanile: i tratti divertenti, addirittura satirici, della penna di Knight non soddisfavano la mia voglia di radicalità, e ai miei occhi la grandezza del libro, la storia di degli adolescenti non bianchi che volevano semplicemente comunicare la loro libertà di esprimersi contro i bigotti e i razzisti, non mi pareva abbastanza hardcore.

Pur non essendo un capolavoro – anche all’epoca avevo intuito alcune ingenuità da “opera prima” acuite dalla natura Do-It-Yourself dello stesso – ero inconsapevole della vera grandezza di questo romanzo: parlando alle nuove generazioni arabe residenti in USA, aveva generato un nuovo mondo.

La nota massima di Wilde, “La vita imita l’arte più di quanto l’arte imiti la vita”, grazie all’opera di Knight si palesa nella sua totale compiutezza.
Dopo l’uscita di The Taqwacores  in USA si crea una piccola scena musicale di giovani di origine araba che suonano punk e hardcore la cui band più nota sono i Kominas.
Duo americano-pakistano del Massachussets, con il primo album Wild Nights in Guantanamo Bay riescono a indignare tanto la comunità musulmana più bigotta quanto i bianchi americani reazionari.
Il loro mix di punk, surf rock, musica del Punjab e reggae è supportato da testi estremamente provocatori, dall’eloquente titolo della opener Sharia Law in the USA fino alla demenziale I Want a Handjob che riesce a unire straordinariamente volgarità sessuali, critiche all’imperialismo americano e il tradizionale motto sciita “Every Land is Kabala, Every Day is Ashura”, attribuito all’Imam Al-Sadiq e spesso citato dall’Ayatollah Khomeini.
Ma le band sono tantissime, tutte diverse e tutte incredibilmente provocatorie: i Vote Hezbollah, omonimi di un album del sopracitato Muslim Gauze, la cui Poppy Fields e un piccolo capolavoro di punk rock grezzo e melodico; i Fedayeen, il cui primo singolo I Love Osama Bin Laden (2009) farà scalpore in tutto il mondo e che due anni dopo pubblicheranno l’ep List of The Dead dedicato ai bambini palestinesi uccisi dall’esercito israeliano e la band canadese queercore e femminista “Secret Trial Five”, che si scaglierà per tutta la sua carriera tanto contro la misoginia e l’omofobia di parte della comunità islamica quanto contro l’imperialismo israeliano e statunitense.

Tanti di questi progetti andranno poi a confluire nel documentario The Birth of Islam Punk: Taqwacore (2009) di Omar Majeed e in The Taqwacores (2010) di Eyad Zahra, divertente adattamento del libro di Knight che nel mentre ha proseguito la sua carriera di scrittore diventando uno dei più provocatori gonzo journalist americani.
Quando questa scena arriva al pubblico mainstream, però, tante band cominciano a sciogliersi o a distanziarsi da questa etichetta che, a loro avviso, sta diventando troppo stretta.

Ma il margine è ormai stato oltrepassato, e dalla seconda metà degli anni ’00 ad oggi nascono innumerevoli progetti musicali in cui artisti di origine araba si confrontano con la “musica occidentale” e ne stravolgono le regole ormai stantie con una incredibile vitalità.
In USA esistono infatti due band fieramente taqwacore ancora attive, i Dead Bhuttos e gli Haram, entrambi alfieri di un hardcore ferocissimo dalle liriche estreme, ma l’onda è tracimata oltre il punk, dalla nostrana DJ Kandeesha con i suoi set di techno araba  all’inno drill Inn Ann dei giovani palestinesi Daboor e Shabjdeed, pubblicata due anni fa e oggi inno della Resistenza Palestinese, con barre come:

“Vieni da noi, fratello, ci siamo presi una posizione in alto
hai paura di notte, illuminiamo un po’ di oscurità
ma non dimenticare mai
Sono come un’arma nucleare e mortale
a Gaza alcuni uomini stanno scavando tunnel
ripiegano sacchi pieni di corpi
Dai, facciamo un disastro
Dai, facciamo un casino”

Settembre 1920. Al Congresso di Baku Zinov’ev arringa la folla. Grida: “Noi diciamo che nel mondo non ci sono più solo uomini bianchi. Oltre gli Europei, centinaia di migliaia di uomini di altre razze popolano l’Asia e l’Africa. Vogliamo porre fine al dominio del capitale in tutto il mondo. Proletari di tutti i paesi, oppressi del mondo intero, unitevi!”
Taqwacores di Knight, la scena che ne è seguita dopo e i centinaia di progetti politici e artistici delle persone di origine araba ci aiutano a raggiungere questo obiettivo.
Alla faccia della “rabbia e l’orgoglio” di chi vuole mantenere il dominio coloniale.

One thought on “Mujhaed Riot | Storie di Islam, punk e anarchia

  1. hola, me ha parecido muy interesante este articulo sobre punk, islam y politíca, conocía algunas bandas como Haram, Taqbir,Khassarat…pero no conocía la existencia del movimiento Taqwacore, aqui en este pais no hay mucha conexion entre el punnk y la comunidad islamica, aunque haya una gran poblacion arabe viviendo aqui.

    Miraré mas información de tu blog, un saludo, IVAN.

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