Oltre le Rovine degli Egestas, nichilismo esistenziale a sud di nessun paradiso

Dopo anni che rimando una non-recensione di Oltre le Rovine degli Egestas, finalmente ho trovato il modo che penso sia più consono e valido per parlarvene. E lo faccio con colpevole ritardo, perchè il disco è uscito nel 2019 e ha preso vita fisica grazie ad una cospirazione diy di cui Disastro Sonoro ha fatto orgogliosamente parte. Gli anni son passati, gli Egestas son piombati in un sonnolento silenzio o sono in clandestina latitanza artistica, ma questo disco merita ancora attenzione, non solo per la qualità musicale e per il contenuto lirico-filosofico, ma per capire se c’è ancora qualcosa oltre le rovine dell’esistente e dell’inferno quotidiano.

In una lunga e angosciante discesa verso gli abissi della follia, a sud di nessun paradiso, ci imbattiamo negli Egestas e nel loro cantico infernale di miseria (materiale e non) macerie e disperazione, permeato da una profonda tensione nichilista ed esistenziale, intitolato Oltre le Rovine. Non a caso il termine latino egestas, che la band sembra aver estratto dalla frase “Quidvis egestas imperat” (tradotta come “la povertà estrema obbliga ad ogni cosa”), viene tradotta di volta in volta con povertà, necessità e rovine. Povertà materiale, di pensiero, di parole e di coscienza; necessità espressiva e artistica, ma anche di affrontare i propri demoni interiori; rovine dell’esistente e della psiche, tra orrori quotidiani e barbarie spacciate per il migliore dei mondi possibili. Veniamo introdotti a questo viaggio Oltre le Rovine da Il Dominio Dell’Incostanza, traccia che si apre con “Siamo in molti miliardi di troppo a chiedere il paradiso in terra, ma è l’inferno quello che rendiamo inevitabile…”, una citazione di Albert Caraco che lascia poco spazio ad interpretazioni sull’approccio filosofico della band bolognese e sulle sue fonti di ispirazioni letterarie che guardano nell’abisso del nichilismo esistenziale. L’approccio lirico e musicale adottato dagli Egestas non può dunque che incarnarsi in un viaggio introspettivo, doloroso, angosciante, accompagnato da atmosfere opprimenti e oscure che chiudono ogni spiraglio alla luce o alla salvezza. Non sempre però affacciarsi sull’abisso ci costringe a cadere in balia di un vortice di disperazione, terrore, paranoie e immobilismo; affacciarsi sull’abisso, calarsi nei suoi meandri, può significare anche andare a caccia di demoni, affrontare le più recondite paure e aggirarsi tra le macerie della propria esistenza, con un impulso per ricercare una catarsi dolorosa quanto necessaria. O come recitano le parole di Stillicidio: “Non cedere, ogni passo avanti è solo l’ombra del cammino“. Le lande sonore di queste rovine di un paradiso perduto sulle quali si aggirano gli Egestas sono infestate dai fantasmi del black metal più ferale, del crust punk più apocalittico e del post-hardcore più disperato, ma assumono di volta in volta aspetti e sembianze polimorfe e imprevedibili nel loro gioco continuo di ibridazione e saccheggio reciproco. Da questo kompost sonoro emergono cinque capitoli angoscianti, alcuni dal minutaggio davvero sostenuto come Trafficanti di Ombre e la già citata Il Dominio dell’Incostanza, due peregrinazioni oscure verso voragini infernali e immagini lugubri e strazianti, sempre in bilico tra salvezza e dannazione, tra quiete e distruzione, tra una luce fioca e ombre impenetrabili. Proprio come i pensatori nichilisti e in particolar modo il Caraco di Breviario del Caos, le liriche dei bolognesi sono intrise di considerazione e riflessioni sull’essere umano, come singolo e come specie, e sul suo destino inevitabile, espresse con severità, disillusione, ferocia ma anche con una flebile apertura che può concretizzarsi in varie forme a seconda di chi legge, ascolta e interpreta: catarsi, redenzione, abbandono, resa o nella distruzione di se stessi. Nelle parole degli Egestas Oltre le Rovine racconta la storia di chi affronta il buio per raggiungere una luce totalizzante da cui non si può tornare indietro, un nichilismo profondo che però si aggrappa ad illusioni e speranza di eternità. Ma se il paradiso terrestre più che divino lo abbiamo perduto, distrutto e infettato con il nostro pestilenziale agire e nella sua ricerca agognata non abbiamo fatto altro che dare forma all’aridità e alle barbarie di un inferno quotidiano, per dirla ancora una volta con Caraco: “la sola scelta che abbiamo è tra essere i dannati che vengono tormentati o i diavoli addetti al loro supplizio“.